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Capanna del Forno 2.574 m. (Italia / Svizzera Valle del Forno)
escursione unica in scenari maestosi, ci si muove per valli isolate e solitarie dove è difficile incontrare qualcuno fino al rifugio

rifugio capanna del forno

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Località di partenza:
Chiareggio 1.612 m.

Quota di partenza: 1.622 m.
Quota di arrivo: 2.574 m. (quota max. 2..775 m.)
Dislivello: 1.354 m. (dislivello positivo)
Posizione: su una terrazza panoramica rocciosa in Val del Forno, al di sopra di Maloja (cantone dei Grigioni),
al confine tra l’Alta Engadina e la Val Bregaglia
Difficoltà: EE/A (F+) in caso di neve [scala dei livelli di difficoltà]
Ore: 8h 30’ a/r
Periodo: da fine giugno a metà settembre
Attrezzatura richiesta: classica da trekking con equipaggio di ramponi e piccozza (o bastoncini)
Discesa: per la via di salita
Rifiuti: ecco cosa bisogna sapere prima di abbandonarli

 

Sono praticamente infiniti gli itinerari escursionistici in Valmalenco.
Dopo aver visitato quasi tutti i rifugi della zona, ecco che in uno dei miei soggiorni vengo attirato da un
puntino rosso sulla cartina, un po’ più isolato e fuori rotta.
Si tratta di un rifugio, una capanna, che non è in Italia ma leggermente aldilà dal confine, in Svizzera.

La strada più comoda per raggiungerlo, nonché la più frequentata, parte dal Passo del Maloja in Val Bregaglia.
Io però sono da questa parte e per arrivarci devo seguire la traccia puntinata che da Chiareggio sale al Passo del Forno
e da qui scende al rifugio.
Il tutto attraverso valli isolate circondate da cime imponenti, a formare uno degli ambienti più severi e
allo stesso tempo spettacolari.
Un itinerario insolito ed estremamente lungo nel quale devo solo verificare l’agibilità nei pressi del valico
e nel tratto successivo in discesa che si svolgerà su residui di ghiacciaio.
E’ tutto troppo bello, non resisto e decido di andare ad esplorare la zona.
Mal che vada tornerò sui miei passi se le difficoltà dovessero essere eccessive.
Arrivo a Chiareggio in una bella mattinata di sole e parcheggio in riva al torrente Mallero, al Pian del Lupo,
punto di partenza anche per i rifugi Gerli-Porro, Ventina, Tartaglione-Crispo e Del Grande Camerini.
La zona con mio disappunto è già parecchio affollata ma trovo un posto per parcheggiare.
Le persone che scendono dall’auto sono come impazzite, camminano avanti e indietro cercando di scoprire
l’imbocco del sentiero che si sono prefissati.
Alcuni sono in ciabatte, altri con cani, prole e passeggini vari, altri ancora (pochi), con ferraglia da
arrampicata e super zaini.
Io lego al mio da 48 litri tutta l’attrezzatura che presumo mi occorrerà lassù,
(ramponi e bastoncini più che altro) e sono pronto a partire.

Mi incammino verso la testata della valle in direzione Forbesina dove trovo anche le indicazioni per
il Rifugio Del Grande Camerini, non prima di essere fermato un paio di volte da alcuni escursionisti che chiedono
la strada giusta per il Porro.
Per la prima parte della salita parto avvantaggiato in quanto la conosco già.
Il sentiero è lo stesso che sale al Camerini, inizia in un bel bosco di abeti con discreta pendenza e
arriva prima all’Alpe Vazzeda Inferiore e poi, dopo un tratto molto più faticoso tra erba e roccette, a quella Superiore
dalla quale si ha un panorama magnifico sull’Alta Valmalenco e sulla Val Ventina dove spiccano il Disgrazia,
la Punta Rosalba e la Cima del Duca.
In un bellissimo alpeggio cintato, ci sono ancora i due asinelli che avevo incontrato anche durante la mia
precedente gita al Rifugio Del Grande Camerini.
Se la volta scorsa gli asinelli, guardandomi si erano fatti venire il dubbio che per fare l’anello di quest’ultimo rifugio
qualcosa di fuori posto dovessi averlo, ora mi stanno con certezza dando del pazzo a voler sconfinare da solo
su un tragitto simile: lo vedo nei loro occhi.
Scherzi a parte, in questo primo tratto di gente ne ho incontrata molta, soprattutto due grupponi del CAI intenti a
salire al Camerini, una meta classica e molto remunerativa.
Non appena due signore dell’ultimo gruppo, chiacchierando con me, sono venute a conoscenza dei miei
obiettivi di giornata, subito il colore dei loro capelli ha virato al bianco, più che altro perché mi hanno visto
da solo e probabilmente conoscevano le difficoltà del percorso.
Dopo aver salutato e tranquillizzato tutti mi rimetto in marcia e ben presto raggiungo un bivio.
Lascio a sinistra la traccia per il Camerini e prendo a destra, seguendo le indicazioni per il Passo del Forno
e la Val Bona.

Da qui in poi più nessuno.
Dopo i primi metri il sentiero, o quello che ne rimane, diventa a mezza costa e molto stretto, nascosto dall’erba alta,
dai mughi e da grossi massi ricoperti da questa vegetazione tra i quali è molto difficile trovare
un punto d’appoggio per il piede.
E’ un tratto rognoso e ostico dove occorre fare attenzione a non prendersi una storta, in un punto dove
di difficoltà non ve ne sarebbe nemmeno l’ombra se la traccia fosse più curata.
E’ anche vero che in un anno saranno veramente poche le persone a passare di qui.
La posizione in cui mi trovo in compenso è meravigliosa e, anche se sono ancora ad una quota modesta,
il panorama si mantiene sempre di prim’ordine.
Alla mia destra svetta il Monte dell’Oro e sui suoi pendii, riesco a vedere anche l’Alpe dell’Oro e l’Alpe Monterosso.
Alle spalle ho sempre la vista sulla Val Ventina e sulla Valmalenco dove, molto lontano, ora appare anche la
piramide del Pizzo Scalino.
Il Disgrazia invece si è nascosto e fino al ritorno non lo vedrò più.
Continuo cercando di orientarmi al meglio tra i mughi, fino a scavallare un guado su rocce malmesse e
bagnate dove sembra di camminare sul sapone.
Improvvisamente, subito dopo, il sentiero spiana un po’ e abbandona la mezza costa per entrare in Val Bona
dove in lontananza ad accogliermi compaiono le cime di Monte Rosso.
Sono nella direzione giusta, ora avanti fino al Passo del Forno!
Incredibile ma vero, qui il sentiero ricompare totalmente, diventa comodo e ben segnato come se nulla fosse.
Mistero.

Sono in un punto abbastanza stretto della valle, una formichina in mezzo a giganti quale il
Monte dell’Oro e la Cima Vazzeda.
Arrivo ad un bel pianoro erboso costeggiando per un po’ il torrente della Val Bona.
Un ponticello solitario mi porta dalla destra alla sinistra orografica della valle.
Un attimo di tregua per tirare il fiato e ammirare ancora di più l’ambiente incredibile in cui mi trovo.
Che emozione, che incanto!
Piazzerei giusto una tenda per non muovermi più da qui.
Poco distante dal ponte, un cartello segnaletico mi indica che mancano ancora più di due ore per arrivare in
cima al passo, poi ci sarà ancora una discesa fino alla capanna di circa mezz’ora.
Qualche nuvoletta inizia a fare capolino tra queste cime, creando zone d’ombre che danno un tocco ancora
più magico a questa valle.
Proseguo sempre lungo il torrente rimontando qualche sfasciume e portandomi sotto delle bastionate rocciose
per poi avanzare con percorso più dritto.
Di fronte a me l’altissima Cima di Vazzeda mi osserva immobile, al cospetto della quale non sono che
un granello di polvere.
Da quando ho oltrepassato il ponte, il sentiero è sempre ben indicato con i classici segni bianco-rossi
impressi sui massi.
D’altra parte, non vi sono deviazioni ed è impossibile che mi perda.
Risalgo un pendio erboso che lambisce la stupenda cascata che qui il torrente forma, uno strappo un po’ faticoso
ma davvero suggestivo.
Giunto in cima alla cascata, vedo in fondo alla valle la meta, il Passo del Forno.
Inizia qui un paesaggio totalmente diverso, fatto di roccia e pietra, in corrispondenza del quale alla segnaletica italiana
si aggiunge anche quella svizzera coi segni bianco-blu.
Proprio di fronte al gruppo del Monte Rosso, inizia un’immensa morena di un vecchio ghiacciaio fatta di
pietre che mi accingo a salire.
Facendo attenzione a non smuovere i massi e a non scivolare, mi ritrovo a circa metà di questa salita dove
mi fermo un attimo per mangiare qualche barretta.
Sono solo in mezzo a questi enormi blocchi fatti di ghiaia, non un’anima si fa viva e oggi nemmeno un animale.
Vedo tutta la Val Bona che fin qui ho risalito e mi accorgo di aver fatto non so quanti chilometri da quando son partito.
Sono su un balcone con un posto in prima fila a contemplare queste meraviglie di montagne.

Non sono ancora arrivato, non posso rilassarmi troppo e sul sentiero iniziano ora tratti di neve che
precedono un piccolo ghiacciaio.
Metto subito i ramponi ed estraggo i bastoncini per una progressione più stabile e sicura.
Ero certo che questa attrezzatura mi sarebbe servita, quest’anno ha nevicato tanto e tardi, e attorno ai 2.700
metri ovunque c’è ancora neve.
Solo che non immaginavo quanta ne avrei incontrata di lì a poco.
Con tutto questo bianco, i bolli sulle rocce scompaiono ma ormai la direzione da seguire è ovvia.
Negli ultimi metri di dislivello mi aspetta una faticosa risalita fino in cima al passo con pendenza molto sostenuta.
Un grosso nevaio senza crepacci dove la neve è tantissima e molle e a volte scivolo anche con i ramponi.
In alcuni punti cerco le rocce, pianto i bastoncini e salgo.
Tutto bene, arrivo in cima non rendendomi conto ancora in che punto sono.
Non riesco a trovare le parole per descrivere questo posto che segna proprio il confine di stato tra Italia e Svizzera.
Val Bona e Valmalenco da una parte, Valle del Forno ed Engadina dall’altra.
Praticamente nell’unico punto dove la montagna cede un po’ ci sono io, tra il Monte del Forno e il Monte Rosso.
Tutto stupendo e unico, ma quando osservo i miei piedi che sono all’altezza della lamina di metallo del cartello
segnaletico posto sul passo, rimango a bocca aperta.
Tutto il palo è sommerso, senza accorgermene sono sopra a due metri di neve!
Con i ramponi ben piantati nel ghiaccio, affronto i pochi metri di discesa in Svizzera, prima di arrestarmi nei
pressi di un salto di roccia.
Tengo i ramponi e disarrampico un po’ aiutandomi con le mani, fino a rimettere i piedi sulla piccola vedretta che
scende per buona parte nella valle.
Un tempo il ghiacciaio era più grande e consistente e arrivava sino a quello del Forno che incontrerò più avanti.
Per un buon tratto la pendenza è veramente notevole e, aiutandomi coi bastoncini, cerco di infilare i piedi
in punti stabili o sulle tracce lasciate da altri.
Non sono pochi, infatti, i frequentatori del rifugio che decidono di godere la vista magnifica che si ha dal passo,
nonché sui monti italiani.

In questo punto un po’ scomodo incrocio un escursionista diretto a Chiareggio, il primo che incontro e che dall’Italia
ha valicato il Passo del Muretto, poco distante da qui, e traversando fino alla Capanna del Forno rientra ora
per questo omonimo passo.
Rimango un po’ sorpreso quando afferma di essersi perso nel trovare la strada giusta sul versante svizzero,
e di essere ora molto provato.
In effetti l’intero periplo è un anello lunghissimo, ancora maggiore della mia escursione giornaliera.
Un percorso più rapido, è vero, collega direttamente questi due passi ma risulta più alpinistico.
Proseguo sempre sul ghiaccio tra giochi di luce e ombre formate dalle nuvole e in breve
arrivo al termine della neve.
Il sentiero torna nuovamente ad essere visibile e chiaro, bollato sempre coi colori bianco e blu
(mancano da questo versante invece quelli bianco e rosso italiani).
Dopo un buon tratto su pietraia, aggiro un crinale e mi appare la Capanna del Forno adagiata su un terrazzino
roccioso estremamente panoramico e quasi nel vuoto.
Un baluardo isolato a guardia di questi monti.
Ma lo spettacolo più favoloso me lo offre l’immensa lingua del ghiacciaio del Forno al di sotto del rifugio e che
percorre quasi tutta la lunghezza della valle.
Uno spettacolo così unico con questa immensa striscia glaciale, l’avevo visto solo in foto su riviste o in
televisione, come ad esempio l’immagine del ghiacciaio dell’Aletsch.
Averlo così vicino quasi da toccarlo mi fa rimanere paralizzato.
Non perdo tempo però e arrivo al rifugio per avere una visuale ancora migliore. 

Antistante alla struttura mi fermo ad ammirare e fare qualche foto al piccolo giardino botanico che con tanta cura
è stato creato dove risaltano dei bei papaveri alpini.
Mi precipito verso il muretto che cinge il terrazzino del rifugio e lì rimango in contemplazione per più di un’ora.
Non ci sono veramente parole a questo capolavoro della natura, e pensare che l’uomo ce la sta
mettendo tutta per distruggerla.
E questo solo per i propri interessi economici e di squallida comodità.
Anche questo ghiacciaio, seppur ancora notevolissimo come dimensioni, è in forte ritiro e tutto intorno lo dimostrano
le rocce montonate che lo contornano.
Seguendo con lo sguardo il ghiacciaio verso la testata della Valle del Forno, posso vedere i profili di montagne
bellissime che separano questa valle con l’opposta Val di Mello.
Questi monti sono i Pizzi Torrone che si dividono in orientale, centrale ed occidentale.
Tra essi la Punta Rasica oggetto di numerose ascensioni, il Monte Sissone e la Cima di Castello.
In linea d’aria col rifugio invece svetta il Piz Bacun, il più alto, seguito dal vicino Piz Casnil e dalla Cima dal Largh.
Tutte vette magnifiche (e molto friabili) di questa porzione di Engadina.
Alla destra del rifugio invece, parte il sentiero che raggiunge il Passo del Maloja, la via più breve per arrivare
fin qui e che nella parte più bassa lambisce proprio il ghiacciaio del Forno.
Estasiato da un ambiente così, vago con la mente e immagino per assurdo di comprare questo rifugio,
una bellissima struttura in pietra, e di trasferirmi qui tutto l’anno.
Un sogno!
Nel primo pomeriggio qualche nuvola in più e qualche cliente in meno, mi fanno capire che è meglio rimettermi
in marcia, direzione Chiareggio.

Dopo tutta la strada fatta al mattino, la risalita al Passo del Forno è veramente dura.
Ancora una volta sono solo, gli altri escursionisti inforcano il sentiero che li ricondurrà al Maloja.
È ormai abbastanza nuvoloso ma non dovrebbe piovere, il che mi tranquillizza e mi fa evitare di correre.
Di nuovo pietraia, neve e ghiacciaio.
L’ultimo pezzo è molto ripido e mi concentro su dove piantare i ramponi.
Nei pressi del colle mi fermo sotto al salto di roccia e rompo un po’ di ghiaccio attaccato al granito.
Supero questo salto di I grado, tenendo ai piedi i ramponi, mi libero dei bastoncini lanciandoli poco più in alto
e mi aiuto con le mani.
Recupero gli stessi e rimonto gli ultimi metri, ritrovandomi in cima sopra i due buoni metri di neve di prima.
Ma perché devo andare via da un posto così?
Chi me lo fa fare?
Incomincio a scendere facendo attenzione alla prima parte davvero ripida, poi più agevolmente fino
al termine della neve.
Qui, su un masso noto una targhetta in metallo che in salita non avevo visto, e che riporta la tragica scomparsa di
Ettore Castiglioni, sorpreso da una terribile tormenta proprio nei pressi del ghiacciaio del Forno.

Tolti i ramponi ripercorro a ritroso tutto il tragitto della mattinata, con un po’ di energia in meno,
sempre senza incontrare nessuno.
Come prima, la parte più fastidiosa la ritrovo puntualmente nel collegamento tra la Val Bona e l’Alpe
Vazzeda Superiore dove la traccia scompare e affondo nell’erba e nei mughi.
Sembra una terra di nessuno, nella quale non si sa chi deve fare manutenzione al sentiero.
Le gambe, stanchissime, mi fanno procedere più lentamente.
Giunto all’alpeggio, un timido sole fa di nuovo capolino, le difficoltà sono finite e posso godermi in tranquillità
la comoda discesa fino a Pian del Lupo.
Sono sicuro che da stasera, nei miei sogni, continuerò a ripercorrere questa traversata più e più volte,
perchè così tanta bellezza e così tante emozioni non possono mai svanire.

Relazione e fotografie di: Daniele Repossi


Note:
escursione unica al confine tra l’Alta Valtellina e l’Alta Engadina in scenari maestosi e severi.
Al confine tra l’escursionismo e l’alpinismo facile, è un itinerario molto lungo e faticoso che richiede ottimo allenamento
e resistenza, oltre a una buona capacità di muoversi su roccia, sfasciumi e residui di ghiacciaio.
Anche il dislivello è notevole.
Ci si muove per valli isolate e solitarie, dove è molto difficile incontrare qualcuno fino al rifugio.