Cerca

Rifugio Città di Mantova 3.498 m. – Rifugio Gnifetti 3.647 m.
(Italia – Valle di Gressoney)
il tratto che dal Passo dei Salati sale alla Punta Indren aggira le rocce dello Stolemberg e prevede tratti esposti ed attrezzati con fune; salita da non sottovalutare in quanto ci si muove sempre su ghiacciaio, e comunque in ambiente di alta montagna dove il tempo può cambiare repentinamente

rifugio citta di mantova


Località di partenza:
Staffal, Valle di Gressoney

Quota di partenza: 1.840 m.
Quota di arrivo: 3.647 m. (quota max. Rifugio Gnifetti)
Dislivello: 716 m. (dislivello positivo dal Passo dei Salati)
Posizione: i rifugi si trovano lungo il versante sud del Monte Rosa
Il Città di Mantova è collocato su un terrazzino roccioso lungo il ghiacciaio del Garstelet,
mentre il Gnifetti, poco più in alto, si trova incastonato tra le rocce che separano il Ghiacciaio del Lys da quello
del Garstelet
Difficoltà: A (F+) [scala dei livelli delle difficoltà]
Ore: 6h a/r
Periodo: da metà giugno a metà settembre
Attrezzatura richiesta: imbrago, longe, corda, piccozza, ramponi, casco e abbigliamento tecnico da alta quota
Discesa: per la via di salita
Rifiuti: ecco cosa bisogna sapere prima di abbandonarli

Aggrappati al Rosa
Due rifugi aggrappati saldamente alle rocce del versante sud del Monte Rosa, un vero e proprio simbolo di tutto l’arco alpino.
Due baluardi che dall’alto dominano le valli di Gressoney e della Valsesia, due balconi panoramici affacciati su una
distesa di monti, due presidi d’alta quota a guardia dei ghiacciai che inesorabilmente si ritirano.
Ancora, due strutture poste sulla soglia d’ingresso verso un mondo dominato dai ghiacci, pareti verticali e cime
che si elevano al cielo, là dove l’aria si fa più rarefatta e le sensazioni si dilatano.
Un luogo che oggi attira come una calamita.
Stiamo parlando della zona compresa tra i ghiacciai del Lys e del Garstelet ad una quota di 3.500-3.600 metri.
Controindicazioni?
L’affollamento sicuramente.
Nel corso degli anni l’alta montagna, complice il proliferare di corsi, gite organizzate e il miglioramento costante
dei materiali tecnici, è divenuta accessibile a un sempre maggior numero di persone che, soprattutto nella stagione
più calda, si riversano lungo questo versante.
Il Monte Rosa, più di altri monti, può essere considerato la via più facile ai ghiacciai.
L’affollamento, che da un lato garantisce il mantenimento di vie relativamente sicure lungo i ghiacciai, dall’altro ha
raggiunto soglie di criticità in questi presidi soprattutto in caso di pernottamento.
Le prenotazioni ormai non avvengono più in anticipo di giorni, ma di settimane o mesi prima.
Allo stesso tempo però, ritengo che evitare per questo di salire quassù, sia proprio un delitto.

La soluzione c’è e si chiama “partenza in giorni strategici”, una scuola di pensiero che comprende al suo interno
non solo il fatto di salire magari per vie meno frequentate, ma anche di scegliere il periodo meno caotico,
a maggior ragione per gite di più giorni nelle quali il pernottamento diventa d’obbligo.
Salite in giornata, con qualche accorgimento, sono da questo punto di vista quasi sempre fattibili.
Se prenoto in pieno luglio o agosto, magari nei fine settimana, non potrò certo pretendere di avere la tranquillità e
la montagna tutta per me.
Giorni feriali di giugno e settembre a mio avviso sono sicuramente i migliori.

Sono salito diverse volte quassù ma mai abbastanza.
Questo resoconto descrive la salita ai due rifugi fatta in giornata ma in momenti diversi.
La prima volta, infatti, il guastarsi del tempo non mi ha consentito di proseguire fino al secondo rifugio, raggiunto
invece in seguito con tempo meraviglioso. 

Non mi sono mai affidato ad una guida, ma con la mia filosofia del “non rischiare mai”, ho intrapreso questa ascesa,
partendo sempre dal Passo dei Salati e percorrendo uno dei tratti più belli e a torto dimenticati con la
costruzione degli impianti.
Sto parlando del tratto che attraversa alla base lo Stolemberg.

Alle porte dell’alta montagna: il Rifugio Città di Mantova
È una bella mattina di agosto e mi ritrovo a Staffal, al termine della Valle di Gressoney, intento a salire una rampa
di scale di una struttura che mai avrei voluto avvicinare.
L’impianto di risalita.
Già, perché decidendo di effettuare l’escursione in giornata, sarebbe impensabile salire e scendere a piedi dal
paese al Rifugio Gnifetti.
Stiamo parlando di una salita con uno sviluppo di 2.000 metri di dislivello e un totale di circa 7-8 ore.
Poi, ovvio, ci sarebbe da scendere, ma col buio.
Dopo aver preso il biglietto della telecabina che in due tronconi sale fino al Passo dei Salati, cerco di dirigermi
verso i tornelli corretti.
Ricordo ancora quella volta in cui, anni fa assieme ad un mio amico, volevamo appunto salire ai Salati e ci siamo
ritrovati sulla telecabina diretta al Colle della Bettaforca.
Semplicemente avevamo varcato il tornello sbagliato e preso l’impianto che risaliva in direzione opposta.
Da questo errore però è poi nata una delle più entusiasmanti escursioni, quella al Rifugio Quintino Sella.

A bordo di questo “diretto”, mi godo il viaggio guardando il panorama da una prospettiva insolita.
A poco a poco appare il Monte Rosa con i suoi oceani di ghiaccio, il naso del Lyskamm e la Piramide Vincent.
Inutile dire lo stupore di fronte a tutta questa meraviglia, illuminata di primo mattino dai timidi raggi del sole.
Ad accogliermi al Passo dei Salati, oltre all’aria gelida più sottile dell’alta quota, un gruppo di giovani stambecchi che,
noncuranti dell’uomo, passeggiano tranquillamente per il pianoro.
C’è un bel sole, ma più a est sul Piemonte e sulla Valle di Alagna insiste un immenso prato di nuvole.
È uno spettacolo della natura ma certamente non un buon segno.
Spero proprio di non avere brutte sorprese più in alto.

Percorro assieme ad altre persone un breve tratto della grande strada sterrata che si dirige verso
l’ultimo troncone della funivia, quello che dai Salati porta alla Punta Indren.
In corrispondenza di una traccia sulla destra esco dal gruppo e inizio il mio cammino.
Avevo letto di questo vecchio sentiero tramite il quale era possibile accedere al massiccio del Rosa “senza aiuti”,
le foto mozzafiato pubblicate mi avevano da subito convinto.
Non vi sono indicazioni (almeno, non erano presenti quando sono passato io), ma è impossibile sbagliare, il sentiero è unico. Salgo adagio dando tempo al corpo di abituarsi allo sforzo in quota, man mano mantenendo un passo regolare.
La terra è dura e pressata, così che il piede non scivola pur camminando tra pietre e sfasciumi.
Al termine di qualche rampa, mi ritrovo su di un bel pianoro roccioso con vista magnifica sul Passo dei Salati,
la Valle di Gressoney e quella di Alagna, dove le nubi fanno davvero impressione anche se al momento sono innocue.
Davanti a me osservo le rocce dello Stolemberg con alle spalle la Piramide Vincent e il Ghiacciaio di Bors.
Seguendo gli ometti di pietra, mi porto al termine di questo pianoro accidentato e quello che vedo oltre mi
manda in tilt il cuore.
Un tratto attrezzato poco più distante sotto le prime roccette di questo monte, da raggiungere attraversando una
crestina larga quanto una lama di un rasoio.
Esposizione massima e nessun cordino per questo breve tratto dove il vuoto è presente su entrambi i lati.
Resto immobile a fissare questo punto per non so quanto tempo.
Sono solo, nessuno sale.
Che fare?
Non sarà troppo per me e il mio senso di equilibrio un po’ così?
Tornare e prendere l’impianto?
Non è che la cosa mi entusiasmi ma quel vuoto mi paralizza.
Passano minuti, mi guardo intorno.
Tutto è immobile, meraviglioso, ma non posso stare qui per sempre.
Mi calmo, alzo la testa verso il Monte Rosa che sembra mi incoraggi.
Respiro profondo e avanzo lentamente fino all’orlo della cresta.
Fisso le rocce opposte al suo termine.
Non è molto, saranno trenta metri ma guai a guardare in basso.
Ho deciso, vado.
A passo spedito, come con una leggera rincorsa, mi ritrovo oltre.
Wow, è andata! 

Il tratto successivo non può essere più difficile mi dico e, dopo aver rimesso il cuore nel petto, raggiungo le funi e procedo.
Inizia ora la parte un pochino alpinistica.
Nessun problema su questo pezzo, facile e divertente.
Le nubi però ora hanno ricoperto anche la Valle dei Salati e avanzano inesorabili, non un buon segno.
Aggirate queste rocce ne percorro la base lungo il versante ovest.
Sfasciumi, rocce rotte e ghiaietto, rendono questa parte un po’ scivolosa che con un po’ di attenzione si supera.
Ma poi, dove sono?
Me ne sto rendendo conto?
Non sto sognando, di fronte a me tutto il Rosa mi osserva e mi aspetta.
Il cielo lassù è un po’ velato ma il sole splende ancora.
Su di un terrazzino roccioso, un po’ più avanti, compare anche la vecchia stazione a monte della Indren per il tratto che
una volta saliva da Alagna.
Sfortunatamente non è stata smantellata ed è ancora là, dimenticata da tutti.
Risalgo un piccolo pendio sfasciumato fino a portarmi contro nuove rocce attrezzate anch’esse con fune.
L’unica difficoltà qui consiste nella discesa su terreno molto bagnato e scivoloso, discesa che termina al Colle delle Pisse.
Risalgo ora su comodo (si fa per dire) sentiero, e arrivo a questa vecchia stazione della funivia, dove mi fermo
a prendere fiato.
Lungo la direzione da cui sono salito si innalza solitario un torrione roccioso non grandissimo, capace però
di incutere un certo timore.
“Fantastico” mi dico “c’è pure un sentierino che corre un po’ esposto sul versante nord e si incunea tra le rocce”.
Ma, è lo Stolemberg e io sono sceso da lì!”
Non realizzo ancora, tanto mi sembra impossibile la cosa.
L’immagine che ne esce, aldilà della mia capacità pessima di fare foto, risulta particolare e sembra fuoriuscire
da un libro fantasy.
Da qui in avanti il sentiero, almeno fin quasi alla Punta Indren, spiana un po’ e non presenta difficoltà. 

Seguo numerosi ometti di pietra tra roccette, senza fare nemmeno troppa fatica data la quasi assenza di dislivello.
Supero un laghetto senza nome e arrivo ai primi nevai.
Insignificante il primo, più esteso il secondo, esteso e ghiacciato il terzo.
È quello di Indren, ormai in forte scioglimento.
In un attimo aggancio i ramponi e impugno la piccozza.
Non ho un compagno o una guida e non posso legarmi, anche se fino alle prime roccette del crinale che portano
al Rifugio Città di Mantova si cammina più su una poltiglia mista tra acqua e neve.
L’importante è stare sulla traccia, in quanto nel punto in cui il ghiacciaio scende verso valle, alla destra della stazione
di Indren, enormi crepacci fungono da monito.
Altra gente sale dall’impianto, ma fortunatamente non c’è una folla enorme.
Camminare su questo ghiacciaio, fuori dal mondo, mi fa immaginare di essere nei panni dei primi pionieri dell’alta
quota che per primi si sono ritrovati di fronte ad un mondo ignoto e inesplorato.
Mi concentro sulla mia salita e tutte le persone intorno a me col loro vociare scompaiono.
Così deve essere, un passo davanti all’altro sono già entrato in un regno fantastico, scaldato dal sole e
più in alto di tutte le nubi.
Cric-croc, è il ghiaccio duro che ogni tanto resiste sotto i miei piedi, per poi sfociare in neve molle se non acqua
fino al livello della caviglia.
Siamo veramente incoscienti a perdere questo bene prezioso, un patrimonio unico che invece andrebbe a tutti i
costi preservato.
Passo sotto la Piramide Vincent, che da qui non si vede molto ma che da lassù a lei non sfugge nulla.
Chissà cosa pensa di tutto questo formicaio che si muove ai suoi piedi.
Lingue di ghiaccio scendono anche dal crinale a monte del pianoro dove si trova il Rifugio Mantova, e vedo che
qualcuno prova a rimontarle con fatica.
Io invece sono diretto alla base delle rocce di questo crinale, al termine del ghiacciaio dove, tolti i ramponi,
si sceglie una direzione.
A sinistra un sentiero più tranquillo, più o meno innevato a seconda del periodo, aggira questo costone e per
roccette arriva a destinazione (sentiero che percorrerò al ritorno).
A destra, beh, a destra parte un pezzo epico quasi verticale e attrezzato con funi che in minor tempo porta alla
stessa meta, il rifugio.
Tentato da una mezza scalata, non esito e mi tuffo tra le braccia della montagna.
In fondo, le funi e le rocce belle salde mi infondono sicuramente più sicurezza della crestina esposta affrontata
all’inizio anche se nuovamente sarò quasi nel vuoto.

Il primo tratto obliquo consiste in una progressione un po’ in aderenza su placche abbastanza lisce intervallate da sfasciumi.
Con l’ausilio della fune mi porto all’inizio di una svolta verso sinistra, proprio aderente alla parete.
Ancora corde, roccette e ghiaia lungo questo traverso non difficile, ma sempre più aereo dove in un punto mi devo
abbassare per far passare lo zaino sotto una sporgenza.
Quindi di nuovo a destra, per la parte più tecnica.
In aderenza su altre placche lisce e gradinate, attaccato alla fune raggiungo la base del salto verticale che porta in cima,
poco più a monte del rifugio.
I primi metri mi vedono salire con una mano sulla fune e l’altra a terra sulle rocce più salde, sulle quali fare forza per
spingere con le gambe.
È meraviglioso salire così, essere un tutt’uno con la montagna, appoggiare le mani sul terreno e accorgersi che
la montagna è viva, ed è solo lei che permette o meno di salirvi.
Forse è proprio per questo che i miei timori sono scomparsi, ho la mente libera e sono concentrato.
Il vuoto non mi fa più paura, stranamente non lo percepisco.
Mi guardo intorno, (anche in basso questa volta), da una specie di cengia rocciosa e mi esce un grande sorriso.
Sono la persona più felice del mondo e non vorrei essere in nessun altro posto.
Sotto di me un oceano di ghiaccio.
Incredibile ciò che sto osservando.
Approfitto di questa sosta anche per lasciar scendere alcune persone dall’alto, che inavvertitamente potrebbero
far rotolare dei sassi sulla mia testa.
Ho il casco ma non si sa mai.
Dopo qualche metro ancora in verticale, mi trovo nel punto chiave dove dei tronchi di legno incastrati tra le
rocce fungono da poggiapiedi.
Non ricordo di aver mai affrontato (e visto) un punto così verticale ed esposto, non difficile, ma che senza fune e
pioli sarebbe sicuramente riservato a pochi.
Salgo adagio un po’ col fiato sospeso ma tranquillo e rilassato, deciso.
Al termine di questa enorme scala esco su di una grande piana dove poco più in basso trovo il Rifugio Mantova.

Purtroppo il meteo si è un po’ guastato e una fitta nebbia avvolge tutto.
Passo accanto ad una piccola croce posta nelle vicinanze e raggiungo il rifugio.
Il sole va e viene ma di panorama neanche a parlarne.
Fisso la nebbia con la fotocamera tra le mani e i pochi scatti li riservo al soprastante rifugio Gnifetti e alla
Piramide Vincent, appena percepibili.
Visito il rifugio, ampliato e migliorato dopo una recente ristrutturazione, per poi attendere sul terrazzo esterno un
miglioramento del tempo che non avverrà.
La montagna mi ha accolto e guidato fin quassù ma per oggi ha detto basta.
Con rammarico inizio la discesa verso valle prendendo questa volta il percorso più easy.
Arrivo al ghiacciaio di Indren sempre avvolto dalle nubi e seguendo altre anime sperdute e sconsolate quanto me,
mi dirigo verso l’impianto di risalita.
Di nuovo, proprio quello che volevo evitare, ma con un tempo così di rischiare lungo lo Stolemberg neanche a parlarne
(il percorso completo lo farò interamente alla prossima uscita).
Scendo di nuovo ai Salati e, prima di tornare a valle, nonostante il tempo mi concedo una piccola deviazione
verso il Col d’Olen nei pressi del quale si trovano i rifugi Guglielmina e Città di Vigevano.
Mi accompagnano allegramente gli stambecchi incontrati stamani.
Sono ancora qui e pare proprio attendessero il mio ritorno. 

Imbocco quindi la grande strada che passa accanto al piccolo laghetto di Cimalegna e all’Istituto Angelo Mosso,
un centro di ricerca con un museo d’alta quota che ripercorre al suo interno la storia del Monte Rosa.
Dopo dieci minuti di cammino arrivo ai due rifugi o meglio a quello che ne è rimasto.
Se il Città di Vigevano versa in stato di abbandono, (sarà probabilmente riqualificato e destinato ad altri scopi turistici), al Rifugio Guglielmina è andata anche peggio, essendo bruciato completamente nel 2011 e, come da volontà dei proprietari,
non più ricostruito.
Che tristezza vedere queste strutture versare in queste condizioni.
E dire che qualche anno prima erano nel pieno dell’attività e parecchio frequentati.
Io ho avuto la fortuna non solo di visitarli, ma anche di pranzarvi insieme ad un mio carissimo amico
(qui la descrizione di quel giorno).
Quelle foto ormai sono storiche.
Con un velo di malinconia intraprendo la discesa verso valle, sospeso nelle nebbie, dopo una giornata nella quale
tutto è stato al massimo.
Quota, ricordi, senso del vuoto, emozioni varie e persino i battiti del cuore.
No, non quelli dovuti alle vertigini o all’equilibrio, ma quelli per la montagna che non cesseranno mai di amare alla follia.

Relazione e fotografie di: Daniele Repossi


Note: escursione magnifica alle porte dell’alta montagna, indicata sia a coloro che sono già esperti a muoversi su
questo tipo di terreni, sia a chi si avvicina per la prima volta al mondo dell’alpinismo.
Il tratto che dal Passo dei Salati sale alla Punta Indren, aggira le rocce dello Stolemberg e prevede tratti esposti
ed attrezzati con fune.
Proseguendo si attraversano due ghiacciai (Indren e Garstelet) e si superano alcuni tratti verticali attrezzati con funi,
assi di legno e pioli di ferro.
Salita non difficile, ma da non sottovalutare in quanto ci si muove sempre su ghiacciaio e comunque in ambiente di
alta montagna, dove il tempo può cambiare repentinamente.
Per i più inesperti è consigliabile affidarsi ad una guida.

Seconda uscita, nell’anno successivo.

Una vedetta tra i ghiacci

Eccomi di nuovo al Passo dei Salati, di mattina presto e questa volta in una giornata totalmente limpida.
Finalmente la vista abbraccia l’orizzonte un po’ da tutte le parti, tranne a nord dove in primo piano vi è un attore principale,
il Monte Rosa.
Dai monti del Piemonte a quelli valdostani è tutto un su e giù di cime e vallate.
Dal Corno d’Olen, al Corno di Mud sul versante Valsesiano, dai laghi Blu e Gabiet, alla Testa Grigia su quello di Gressoney
fino ai più lontani massicci del Rutor e del Gran Paradiso.
C’è da perdere la testa di fronte a tanta meraviglia.
Incredibilmente il pianoro dei Salati è deserto (anche gli stambecchi mancano all’appello), da pazzi in una giornata così
ma meglio per me.
Il tratto che aggira lo Stolemberg mi regala sempre quella giusta dose di adrenalina anche se stavolta sono
mentalmente preparato.
E poi, quale occasione migliore per scaldare subito gambe e braccia?
C’è forse un po’ più di neve rispetto alla volta scorsa, così che per non rischiare danni agli occhi, mi metto subito gli
occhiali da sole passato queste rocce.
Occhiali che non servono a mascherare la stazione della vecchia Indren ancora lì, abbandonata come una nota fuori
posto sul pentagramma perfetto di questi versanti.
Andrebbe quantomeno rimossa.
Un elicottero è ora parcheggiato qui, probabilmente per qualcuno intento a fare qualche lavoro o un sopralluogo.
In lontananza vedo già tutto il percorso di salita (che ora conosco bene), fino al Rifugio Mantova con la punta
del Naso del Lyskamm che fa capolino da dietro alcune rocce.
La giornata è talmente tersa, che addirittura individuo anche un puntino scuro molto più lontano su un crinale
alla base di un ghiacciaio.
No, non sono i mei occhi già accecati a mostrarmi cose strane, ma il Rifugio Quintino Sella al Felik.
L’attraversamento del ghiacciaio di Indren non pone problemi, con più neve ci sono minori pozze d’acqua e una traccia
ancora più sicura.
Linfa vitale per queste vedrette.
Al bivio per il Rifugio Mantova scelgo ancora il tratto attrezzato, più tecnico ed esposto rispetto al sentiero che
aggira sulla sinistra, ma in grado di regalare emozioni uniche.
Una foto alla piccola croce all’uscita di questa ferratina, e giù fino al Rifugio Mantova (una visita è sempre d’obbligo),
che oggi trovo più popolato.
Dalla grande terrazza il panorama è qualcosa di indescrivibile.
Si vede proprio tutto, fino al Gran Paradiso.
La vallata di Gressoney vista da qui impressiona per bellezza.
Piccoli laghetti d’alta quota, quelli di Indren, si alternano a laghi più grandi, il Gabiet, incastonati in un mosaico composto
da monti, canaloni impervi e più miti pascoli nel fondovalle.
Un quadro ricchissimo da dipingere e incorniciare.
Alle spalle della struttura incombe invece la Piramide Vincent con il Rifugio Gnifetti, ben visibile sulle rocce a guardia
del ghiacciaio del Garstelet.
Un’esile traccia parte poco sopra al Mantova e taglia a metà questo ghiacciaio fino allo sperone roccioso finale dove,
un po’ più in alto è stato costruito il Gnifetti.
Il ghiacciaio del Lys, immenso visto da questa terrazza, scende verso valle proprio sotto al Naso del Lyskamm col suo
dedalo di crepacci e seracchi.
Una forza della natura e uno spettacolo da contemplare per ore.
Infilati nuovamente i ramponi sono pronto a partire.
Oggi le porte di questo mondo di ghiaccio sono aperte e io ne sto per varcare la soglia.
Rimonto per un tratto una fascia di rocce e sfasciumi non faticosi per poi mettere piede sul ghiacciaio del Garstelet.
Imbocco la traccia che a mezza costa taglia questo pendio e che avevo visto dal Rifugio Mantova.
In realtà noto due tracce ma quella che passa più in alto mi sembra un po’ più delicata da affrontare.
Procedo con molta cautela in quanto non sono legato.
Non è un punto difficile, non ci sono crepacci ma scivolare è comunque vietato.
L’esposizione aumenta nel tratto terminale, dove il ghiacciaio è più ripido verso valle.
Proprio qui alcuni ragazzi ridendo e scherzando decidono di sorpassarmi sul lato a monte, probabilmente osservando,
secondo loro, la mia eccessiva cautela.
Non fa in tempo a superarmi l’ultimo del gruppo, che lo vedo scivolare, per fortuna fuori dalla mia traiettoria.
La caduta viene evitata dal braccio dell’amico che all’ultimo lo aggancia, ma lo spavento di tutti, me compreso, è enorme.
Quando guardo i loro piedi rimango allibito.
Nessuno porta i ramponi.
Totalmente inesperti e non attrezzati, hanno sottovalutato i rischi dell’alta montagna e oggi è andata bene.
Torneranno lentamente indietro senza arrivare al Gnifetti.
Quando arrivo a toccare la roccia vengo investito da una nube gigantesca.
Non vedo quasi più nulla ma ormai devo solo salire dritto.
Di fronte a me, anzi sopra di me, due scalette con funi e pioli metallici infissi nel granito mi attendono.
In pratica un’altra specie di ferrata.
Prendo il percorso di sinistra destinato alla salita, apparentemente più facile, e senza più timori salgo.
Le braccia vengono un po’ sollecitate ma il tratto è breve.
Mi ritrovo davanti al Rifugio Gnifetti ancora avvolto nella nebbia.
È un attimo però, dopo la mia visita al suo interno, è tutto di nuovo limpido.
Alle sue spalle i Lyskamm, il Lys e un oceano di ghiaccio.
In basso ancora il Lys che, come uno scivolo, termina in corrispondenza di due laghetti, le Sorgenti del Lys appunto.
Trovarmi quassù non mi sembra vero, sono in un mondo parallelo dove tutto è ingigantito e amplificato.
E questo lo si prova soprattutto qualche metro più in alto rispetto al rifugio che, imballato di gente, ne amplifica i suoni
come una cassa di risonanza.
C’è calma, pace e tranquillità tra questi luoghi remoti, corpo e mente si rilassano senza pensare più a niente.
E l’ebbrezza di quell’ora passata lassù isolato dal mondo, nella gloria delle altezze, potrebbe essere sufficiente a
giustificare qualunque follia”
scriveva Giusto Gervasutti, uno degli alpinisti più forti degli anni ’30 e ’40.
Magari qualunque follia no, (come appena visto), ma di certo dopo una giornata quassù si torna a valle cambiati,
arricchiti di quel qualcosa di inspiegabile.
Sulla via del rientro gli ultimi scatti sono ancora una volta per queste cime e questi ghiacciai illuminati dagli ultimi raggi
di sole che si fanno largo tra le nubi in un gioco di luci e ombre che lascia senza fiato.
Queste sono le emozioni che regalano le alte quote, i ghiacciai e l’aria sottile, questo è un mondo unico indissolubilmente
connesso a noi, e dal quale dipendiamo e che dobbiamo assolutamente tenerci stretto.
O anche noi finiremo inesorabilmente per andare in pezzi.